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Al tempo del Coronavirus: quando il contagio della paura supera la paura del contagio

Spesso, nel giudicare una cosa, ci lasciamo trascinare più dall’opinione che non dalla vera sostanza della cosa stessa”, affermava Seneca.

Nonostante i duemila anni intercorsi di presunta civiltà, questa frase si presenta quanto mai attuale.

Sono infatti stati sufficienti i primi, pochi, contagi da COVID-19 nel nostro paese, infiocchettati da un malizioso e martellante clamore mediatico, ed è stata subito paranoia collettiva.

Una paranoia fatta di supermercati depredati, razzismi slatentizzati e smodate ricerche di mascherine e disinfettanti.

A fronte di meno di 3000 decessi, a livello mondiale.

Giusto a voler citare qualche dato statistico, le morti procurate dal virus dell’influenza stagionale sono, nella sola Italia, almeno 3 volte superiori, mentre, pour parler, si attesta oltre il milione e mezzo il numero delle vittime dovute ai cambiamenti climatici di origine antropica, ogni anno.

A ben vedere, la mancanza di ragionevolezza e l’incapacità di discriminazione delle fonti di informazione hanno aperto la strada all’insinuarsi di un altro virus, quello della facile plasmabilità della mente umana.

Ed è questo, possibilmente, il parassita di cui realmente dobbiamo tutti aver timore.

Se non siamo in procinto di un’apocalisse, perché allora il panico dilaga e il senso critico sembra diventato una merce ben più rara delle prodigiose mascherine?

La psicologia cognitiva ci viene in aiuto in questo frangente, consentendoci di analizzare le dinamiche con cui si innescano queste percezioni erronee che conducono, in primis, ad una irrazionale costruzione sociale del rischio, e, in seconda battuta, ad un panico in larga parte sciocco ed ingiustificato.

Perché avviene tutto ciò?

Il nostro ragionamento, purtroppo o per fortuna, non segue le regole rigide della logica formale, ma è anzi contestualizzato e si basa sulle competenze possedute dal singolo, sulle caratteristiche dell’oggetto di valutazione, sulle conoscenze pregresse depositate in memoria. Date queste premesse, il processo inferenziale elabora conclusioni solo intuitive che, però, consideriamo vere, seppur non necessariamente corrette nella forma.

In aggiunta, il nostro cervello è bombardato ogni giorno da migliaia di input sensoriali che, nella loro declinazione di salienza, devono essere più o meno profondamente colti ed elaborati.

Nel corso dell’evoluzione, l’Homo ha dovuto quindi affinare quei meccanismi attentivi per selezionare e far emergere i segnali importanti, soprattutto se di pericolo, rispetto al rumore di fondo.

Come?

Adottando delle strategie che gli psicologi cognitivi definiscono euristiche, ovvero “scorciatoie cognitive” che consentono di elaborare i pensieri e prendere decisioni, compatibilmente con la complessità della situazione e la limitatezza del nostro elaboratore centrale.

Se da un lato le euristiche offrono risposte rapide, ottimali e cognitivamente economiche, il contrappasso sta nelle distorsioni sistematiche nel giudizio decisionale a cui conducono: nascono così i bias cognitivi.

Fonti alla mano, i bias cognitivi sono “deviazioni dalla razionalità […], sviluppati sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che portano dunque ad un errore di valutazione o alla mancanza di oggettività di giudizio”.

In altre parole, i bias cognitivi sono un bug dell’evoluzione del pensiero umano, rappresentando il modo con cui il nostro cervello reinterpreta, spesso distorcendo, la realtà.

Quali sono i bias cognitivi più comuni?

  • L’euristica della disponibilità consiste nel sovrastimare le informazioni a nostra disposizione, sulla base delle conoscenze individuali. Se tali conoscenze derivano poi dalla chiacchiera di giornalisti deontologicamente poco corretti, o, peggio, dall’ultima insensatezza sui social, è chiaro come il passaggio da virulenza a pandemia possa diventare insostenibilmente breve.
  • L’illusione di frequenza spiega invece come il nostro cervello tenda a dare credito alle informazioni, sulla base dell’assiduità con cui vengono presentate. In tal modo ha origine, ad esempio, l’errore di credere che ci sia realmente un incremento spaventoso nella frequenza di contagiati in funzione dell’insistenza mediatica, sovrastimando le reali frequenze.
  • A peggiorare la situazione, il bias di conferma ci porta a dare credibilità alle sole informazioni in grado di confermare la nostra tesi iniziale, scartando eventi che probabilisticamente sarebbero altrettanto possibili. Per questo si tende a focalizzare l’aumento dei nuovi contagi, e a dare meno rilievo alle guarigioni, esacerbando la deviazione dall’esame di realtà.
  • L’argumentum ad judicium, o istinto del gregge, è un altro tipo di errori del ragionamento, secondo la quale si sviluppa una convinzione, non per sua effettiva validità, ma in relazione al grande numero di persone che condividono quella stessa convinzione. Ovvero, tutti comprano mascherine, perché non dovrei averne una anche io?
  • Infine, a causa della cosiddetta “fallacia dello scommettitore”, quando dobbiamo stimare la probabilità di accadimento di un evento, ci facciamo influenzare dagli eventi accaduti in precedenza, anche se questi sono statisticamente indipendenti dalla situazione attuale. Quindi, sulla base di questa congettura strampalata, se condividessi il vagone del treno con una persona con i tratti somatici cinesi, aumenterebbe il mio rischio di contagio.

Sarà divertente vedere se, passato l’allarme, a causa del bias del “senno di poi”, anche questo momento sarà riconsiderato solo come un’altra influenza.

Insomma, io ve lo avevo detto…

La percezione del rischio è un fenomeno complesso che prende forma dal vissuto psicologico ed emotivo del singolo.

La scala temporale breve di diffusione, gli ampi spazi di contagio, le ricadute sociali e l’estraneità della patologia da coronavirus possono dare adito a preoccupazioni ragionevoli. Come abbiamo visto, però, la mente umana non è progettata per prendere decisioni statisticamente valide in modo razionale.

Un ruolo chiave alla base di questi “cortocircuiti mentali” è svolto dall’amigdala, nucleo cerebrale tra i più ancestrali ed istintivi, deputato alla regolazione dei meccanismi della paura e dell’elaborazione della novità.

Non mancherà l’occasione di approfondire il discorso su amigdala e sistema limbico negli articoli successivi. Basti per ora dire che, malgrado il dirottamento automatico ed emotivo ingenerato da queste credenze disfunzionali, è fondamentale innanzi tutto prenderne consapevolezza.

Le dinamiche in atto al momento stanno mettendo a dura prova la nostra umanità, forse più dal punto di vista sociale, che non sanitario.

Ma, malgrado i bias connaturati in noi, ricordiamoci che, l’unica sostanza che ci disinfetterà dall’ignoranza e dal pregiudizio facile, è di certo la sostanza grigia cerebrale, non l’amuchina.

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