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Il futuro prossimo del lavoro da remoto: psicologia dello smart working

La diluizione dei rapporti umani e l’imposizione della distanza di sicurezza stanno aprendo nuovi scenari che impattano non solamente sulla psiche di tutti noi, ma anche sull’ambito lavorativo.

Sebbene già esistente, in questo contesto il lavoro da remoto, o smart working, si sta progressivamente affermando come modalità di riorganizzazione emergenziale del lavoro, utile al mantenimento di imprese e servizi sul territorio nazionale.

Ma cos’è il “lavoro agile”?

La legge 81 del 2017 ha codificato lo smart working come un “rapporto di lavoro subordinato, […] senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento delle attività”.

Ma lo smart working non è solamente questo.

Se, infatti, da un lato il ripensamento del telelavoro ha permesso di mettere in discussione il vincolo su luoghi ed orari di lavoro prestabiliti, dall’altro lato ha avviato una rivoluzione quasi copernicana del ruolo del lavoratore, riqualificandolo come elemento centrale, intorno cui l’azienda gravita per gestire la propria attività.

Questo elemento innovativo implica pertanto un’attenzione maggiore al benessere psicofisico dei lavoratori smart, che, secondo quanto riportato dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, presentano mediamente un grado di soddisfazione, coinvolgimento ed efficienza più elevato di coloro che lavorano nella modalità tradizionale.

La maggiore flessibilità ed autonomia aprono poi la strada ad una rivisitazione delle responsabilità e della creatività del lavoratore, per il quale è ora l’obiettivo, e non più il processo, a valere.

Insomma, il fine giustifica i mezzi, poco importa se si preferisca lavorare all’alba o di notte, in pigiama o in tailleur, seduti o a testa in giù: contano i compiti svolti, i risultati che si ottengono e la valorizzazione dell’individuo che li ottiene.

In quest’ottica i vantaggi appaiono subito evidenti.

Questa nuova dimensione lavorativa garantisce innanzitutto risparmi in termini di tempo e denaro: si evita il tragitto per andare a lavoro, implicando meno sprechi di benzina, meno traffico, minor inquinamento, meno incidenti stradali. Le aziende hanno inoltre necessità inferiori di investire risorse in spazi e allestimenti, con un dimostrato ritorno economico.

L’altra rivoluzione è nel miglioramento della qualità della vita individuale, non solo collettiva.

Il lavorare in remoto spinge ad una gestione più oculata del tempo, spronando ad un approccio di aumentata motivazione e concentrazione, di maggiore vicinanza a luoghi e persone familiari o liberamente scelti, e con una più reale possibilità di conciliazione tra sfera privata e prestazione lavorativa.

In accordo con queste tendenze, secondo i dati dell’Osservatorio prima menzionato, il 2019 ha fatto registrare un incremento del 20% di telelavoratori rispetto all’anno precedente, con potenzialità esponenziali di crescita, viste le attuali disposizioni.

Tuttavia, in Italia siamo ancora al di sotto della media europea in quanto a statistiche, con una percentuale di telelavoratori di circa il 3%, contro dati che superano il 50% in altri stati mitteleuropei.

Perché siamo refrattari al cambiamento intelligente?

Tornando indietro sulla linea del tempo, dalla rivoluzione industriale in poi l’uomo ha dovuto per lo più sradicarsi dalla propria abitazione, costringendosi a spostarsi per raggiungere la fabbrica. Da allora, questo rovinoso pendolo casa-lavoro si è talmente stabilizzato e consolidato nella nostra cultura tradizionale che, come popolo, rimaniamo ancora spesso titubanti rispetto ai cambiamenti in questo settore.

Se la mentalità ci àncora alla resistenza, in aggiunta la necessità di controllo diretto di molti manager verso i loro sottoposti, la burocrazia su privacy e sicurezza, insieme all’impreparazione di molti sistemi aziendali rallentano oltremodo l’adozione del lavoro smart.

Possibilmente, però, tale rallentamento non è del tutto nocivo se lo consideriamo in relazione a questo cambiamento di prospettiva sull’idea di lavoro piuttosto importante.

La quarantena di questi giorni sta, volente o nolente, operando una riorganizzazione delle priorità esistenziali, sociali e culturali, nonché una rivisitazione profonda dell’idea di lavoro e degli investimenti da parte di molte aziende.

Lo smart working è l’esempio positivo che sta proponendo un concreto alito vitale a molte persone, ma c’è, immancabilmente, un però.

Il lato oscuro della luna cela infatti rischi di natura psicologica da non sottovalutare, primo tra tutti l’isolamento dai rapporti interpersonali.

Stiamo testando cosa voglia dire la rarefazione del contatto fisico, degli sguardi non filtrati da schermi, della presenza. Paradossalmente, in un mondo che oramai affida, spesso tristemente, le interazioni umane alla tecnologia, il relazionarsi e il lavorare insieme da dietro le sbarre della tecnologia medesima sembra divenire una panacea.

Come tutto, però, bisogna saper trovare le giuste dosi, ricercando l’autodisciplina e dei limiti sani per vivere bene il lavoro da remoto.

Qualche piccolo consiglio potrebbe comprendere:

  • Ritagliare uno spazio necessario e sufficiente all’attività;
  • Allinearsi con gli orari lavorativi previsti;
  • Concedersi delle pause;
  • Approfittare delle riunioni per rinforzare l’unità del team lavorativo;
  • Permettere, per quanto possibile, la condivisione del proprio mondo lavorativo all’interno del mondo familiare. Se da un alto è infatti importante tenere separate le due dimensioni, può rivelarsi interessante la scoperta del profilo professionale che completa ed arricchisce la nostra personalità.

Nell’equilibrio tra la chiusura relazionale e il caos dell’ufficio, tra il lassismo additato ad alcuni ed il cedere fagocitante ed inflessibile nello stacanovismo di altri, il lavoro smart può confermarsi concretamente come risorsa solo se anticipatamente pianificato e ponderato con adeguata considerazione.

Indiscutibilmente, il traffico sulla via del lavoro sa essere logorante, così come lo sono le rivalità tra colleghi o le angherie di taluni capi poveri di spirito.

Ma, soprattutto ora che dovremmo riconoscere davvero il valore fondamentale della vicinanza tra esseri umani, qual è il contrappeso sul piatto della bilancia, se a guardarci dall’altro lato della scrivania ci sono persone che, come noi, condividono passione e frustrazione per uno stesso lavoro?

Ai posteri l’ardua sentenza.

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