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La psicologia del capro espiatorio: quando il dolore diventa caccia all’untore

Le dinamiche interiori di una persona che ha vissuto un trauma trovano di rado appagamento con spiegazioni che rimandino a destini crudeli o a sfortunate casualità.

Al di là delle contingenze e della realtà dei fatti, la mente spesso individua, anche inconsciamente, un “oggetto cattivo” esterno dal sé su cui scaricare le responsabilità e la rabbia del dramma vissuto.

Tanto più se ci sono sensi di colpa.

Quando infatti gli stati dolorosi si presentano come troppo insopportabili, ecco che siamo generalmente indotti a liberarcene piuttosto che a prenderne consapevolezza ed affrontarli.

Come?

Attraverso la scissione e la proiezione verso l’esterno delle parti interne inaccettabili riguardo il proprio sé o quanto sta accadendo.

In altre parole, ricerchiamo un colpevole, o lo creiamo, ad hoc.

La teoria del capro espiatorio è un modello psico-antropologico che ci aiuta a comprendere questi processi. Essa spiega infatti come i conflitti emotivi non gestiti esplodano in conflitti rabbiosi indirizzati contro una o più persone, selezionate in modo arbitrario per addossare loro colpe altrimenti non imputabili.

Nella storia passata, il fenomeno del capro espiatorio è stato sfruttato come pretesto per giustificare condotte anche poco civili nei confronti di minoranze religiose, etniche o politiche.

Per averne un chiaro esempio, basti pensare alle vittime dell’Olocausto su cui si accanì la Germania nazista, o agli immigrati ritenuti responsabili di crisi nazionali da parte di politiche incapaci ed ignoranti.

Ricontestualizzando il tutto ad oggi, pur senza inciampare in atrocità inconvenienti, vediamo come il fenomeno continua a presentarsi, solo a tratti più sfumato.

Abbiamo così nuove vittime cui addossare colpe nostre o colpe collettive, nel disperato o talvolta meschino progetto di mantenere equilibri di per sé già precari.

In questi giorni di paura e mancanza di punti di riferimento stabili, i nuovi capri espiatori permettono alle persone di preservare una rappresentazione del mondo che le protegga dalle fragilità intrinseche sia individuali, sia legate a questa condizione emergenziale, umana prima ancora che sanitaria.

Se un virus è una minaccia a cui non si può dare forma né sostanza, per riscattare un equilibrio mentale messo così duramente alla prova è diventata forte, ma del tutto ingannevole, la necessità di cercare responsabili.

E allora si è iniziato, in prima battuta, con le barbare rimostranze contro i cinesi, contro le loro attività commerciali ed i loro prodotti, coinvolgendo in incivili rivendicazioni chi anche solo avesse tratti somatici orientali.

La sfilata è proseguita con i depredatori di supermercati che risparmiano solo le penne lisce, gli accaparratori di mascherine che ne privano gli operatori sanitari, i meridionali in fuga dal Nord Italia che vanno a contagiare i loro cari al Sud. Fino a che poi il nemico, il capro espiatorio, ha preso complottisticamente le sembianze di figure istituzionali e di pseudoscienziati filosovietici alle prese con manipolazioni genetiche improbabili, per approdare infine agli untori di ultima generazione, i runners, malevoli praticanti di arti sportive, per lo più in solitaria. Poco importa se gli assembramenti sui mezzi di trasporto o nelle imprese lavorative creano opportunità di contagio ben più realistiche. Quando scatta il pregiudizio, difficile spezzarlo, ci ricorda il caro Einstein.

L’equilibrio sulla bilancia è precario e le contraddizioni moltissime.

Una verità di fondo è che la correttezza di comportamento spesso è venuta a mancare, a causa di una larga, forse larghissima parte di tutti noi, connazionali.

Altrimenti le cose non sarebbero degenerate tanto.

Ma puntare il dito e trovare un vano colpevole che espii le colpe del contagio ha davvero poco senso, soprattutto se quel senso viene ricercato in infondatezze che alimentano paura, isteria e panico.

Ci sono mentalità profondamente sbagliate, ma radicate per cultura nella nostra quotidianità, che si stanno mostrando, ora come mai, in tutta la loro assurdità.

Che sia il virus o la vita ad insegnarcelo, sarebbe opportuno lasciar perdere i capri espiatori ed abbandonare i ruoli di vittima e carnefice.

Ascoltiamo questo dolore interno che tutti ci portiamo dentro e che ci sta mettendo in ginocchio, senza demonizzarlo in colpevoli esterni. È un dolore che ci accomuna e che, date le distanze imposte, dovremmo accogliere ed imparare ad ascoltare, per avvicinarci a noi stessi e alle responsabilità che abbiamo.

Non come vittime.

Ma come uomini e donne consapevoli.

Come esseri umani.

Come collettività.

Perché, tragicamente, non è questa una commedia all’italiana.

Perché stavolta con il solo “io speriamo che me la cavo” non #andràtuttobene.

 

 

 

 

 

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